(Gianluca Frattini) Mai come in questo periodo il Fondo Monetario Internazionale ha trovato
tanti detrattori, e per giunta anche trasversali agli schieramenti politici. Ai tradizionali critici di sinistra, inferociti a causa delle misure strutturali che impone ai Paesi che richiedono il suo intervento, delle errate previsioni sulla crescita del Pil poi sistematicamente riviste al ribasso e, da ultimo, per la sua partecipazione alla Troika in quel paese del terzo mondo che è la Grecia, si è aggiunto il fronte dei conservatori: sono delusi dall’atteggiamento del capo economista Blanchard, che prima ha candidamente ammesso di aver “ecceduto” nel consigliare l’austerity in Europa e in particolare in Grecia, e poi di avere premuto per un intervento più consistente da parte della BCE affinché aumentasse l'obiettivo di inflazione al 4%. A questo nutrito gruppo, da ultimo, si è anche aggiunto il nostro PDL, dopo che il FMI ha osato smontare con un’ovvietà il suo giocattolo elettorale, la cancellazione dell’IMU sulla prima casa; così il nostro Brunetta si è tramutato in una sorta di Naomi Klein “quasi-nobel” e, con sprezzo del ridicolo, ha accusato il Fondo di ingerenza nelle nostre gravi ma non serie questioni interne.
Bene, proprio qualche giorno fa, il FMI, nel tradizionale ruolo di Cassandra, ha dovuto ammettere che le prospettive dell’economia globale nei prossimi mesi saranno grigie, se non nere, con una crescita inferiore a quel 3,3% che aveva precedentemente previsto. Secondo il Direttore Generale Christine Lagarde: "Il Fondo Monetario Internazionale potrebbe tagliare le sue previsioni di crescita globale, in ragione del rallentamento dell’espansione economica nei mercati emergenti”.
Questa prospettiva dovrebbe preoccupare in primo luogo proprio l’Europa. Perché l’Europa?
Bene, perché come ammesso anche da uno degli ex falchi del board BCE, Lorenzo Bini Smaghi, nel suo ultimo libro, la crisi europea era ed è una crisi da bilancia dei pagamenti: le divergenze nel costo del lavoro, unito all’afflusso di capitali verso alcuni PIIGS nel periodo pre-crisi, ha condotto ad un differenziale nei prezzi delle loro esportazioni, il quale, accumulandosi nel corso del tempo, ha condotto agli squilibri dei bilanci pubblici che ora siamo tenuti a risanare.
E come si risolve una crisi del genere? Ma con la svalutazione, ovviamente!
Siccome però i paesi in crisi, appartenendo a un’unione valutaria, non possono svalutare il proprio cambio per rendere competitive le proprie esportazioni, l’unica soluzione che hanno a disposizione è la svalutazione interna: si taglia il costo del lavoro (che nei paesi in crisi di bilancio si dovrebbe chiamare “taglio dei salari”), in una misura che va dal 20 al 40%, sin tanto che il rapporto tra costo del lavoro e produttività (CLUP) sarà tornato a valori competitivi. È un po’ quello che ha fatto la Germania con le sue riforme del 2002, oppure è quello che ha fatto l’Estonia per mantenere il suo cambio fisso con l’euro dopo il 2008. In questo modo si può evitare di far disintegrare l’euro, riducendo le divergenze regionali interne all’area. Purtroppo questa strategia ha le sue piccole controindicazioni: tende a far crollare la domanda interna e a far esplodere la disoccupazione. Non volete che ve lo dimostri, vero?
A questo punto, in giro per il continente, cominciano a spuntare le voci di quelli che chiedono il secondo tipo di svalutazione: quella esterna, del cambio. Come si fa? Semplice: un weekend, nella più completa segretezza (nell’epoca di Wikileaks e Snowden?), si decide di uscire dalla moneta unica, si bloccano i capitali in uscita (per quanto?), e s’incomincia a stampare il nuovo conio a un livello di cambio 1:1 con l’euro. Si lascerà poi che la nuova valuta si deprezzi quel tanto che basta affinché le nostre esportazioni diventino competitive (“competitivo” è, ormai lo avete capito, la nostra parola chiave), scaricando il costo dell’aggiustamento sulle nazioni importatrici. Tra chi propone questa strategia in varie forme e colori, ad esempio, abbiamo il finanziere, filantropo, filosofo George Soros (sebbene preveda un'uscita da parte della Germania); anche nel nostro paese abbiamo qualche rumoroso cavaliere dell’Eurexit.
Tutto bene allora, abbiamo trovato la soluzione?
Ebbene, no. Qualunque sia il vostro tipo di svalutazione preferita, quello che manca è la domanda globale, la quale, come ci ha avvertito il nostro FMI, è prevista peggiorare nel prossimo futuro. Perché, vedete, che siate competitivi e pronti a esportare al resto del mondo grazie ai vostri stipendi miserrimi o, invece, grazie ad un cambio più flessibile di una contorsionista circense, qualcuno che domanda i vostri beni competitivi (perdonatemi) deve pure esserci. E se state contemporaneamente tutti deflazionando i salari e riducendo la spesa pubblica nazionale, comprimendo la domanda interna, che però è quella “estera” per gli altri paesi; o se, invece, con la vostra uscita dall’unione monetaria, (che vorrebbe significare, ricordatelo sempre, la disgregazione finale e irreversibile dell’Euro) in una fase di sofferenze bancarie globali, si destabilizzasse ancora maggiormente l’economia del pianeta, la domanda globale per i vostri prodotti diventerebbe sempre più esile, fino quasi a sparire.
Sia un’intensa austerity che la svalutazione, non solo possono potenzialmente funzionare principalmente in piccole economie aperte al commercio internazionale, ma devono intercettare una qualche domanda estera quantomeno sostenuta. Daniel Gros, in un articolo su Project-Syndicate, fa l’esempio dell’Islanda dopo la crisi del 2008, la quale, più che beneficiare della svalutazione in sé, ha goduto di un periodo di domanda crescente sui mercati internazionali ittico e dell’alluminio (senza contare poi che la svalutazione non ha certo preservato il paese da una riduzione salariale generalizzata). Ma possiamo fare anche l’esempio della Gran Bretagna, che dopo la recente svalutazione della sterlina del 13%, ha visto aumentare le proprie esportazioni di un misero 1%. A ciò dobbiamo aggiungere la crisi statunitense, specie quella occupazionale, che sembra non volersi risolvere; il crollo dei BRICS, tra i quali spicca la Cina; la Germania, che pare non essere più immune dalla crisi; infine il Giappone, che nella strategia “svaluta e esporta” ha puntato tutto nel tentativo di uscire dalla sua crisi deflattiva decennale (ma che desta la preoccupazione di molti economisti).
Esiste un modo alternativo, a questo punto, che eviti all’Europa di morire a causa della spirale deflazione-depressione, o della scissione nucleare dell’euro, con probabile susseguente guerra valutaria? Si, e passa per un rilancio della spesa pubblica nei cosiddetti “paesi-core” (Germania e Finlandia in primis) che hanno ancora un certo spazio fiscale, e l’aumento dei salari, così da rendere l’aggiustamento dei PIIGS più semplice e accomodante. Al contempo si potrebbe pensare a una forma di trasferimenti centro-periferia, al fine di rilanciare la domanda interna negli stessi.
A meno che… a meno che le istituzioni a Bruxelles, Berlino e Francoforte, quando hanno pensato di gestire questa crisi epocale, non avessero in mente questo studio risalente al 1978 del buon Paul Krugman , dall’eloquente titolo: "Teoria del commercio interstellare”.
Perché se non si ritroverà un modo per far ripartire i mercati interni (di consumi e investimenti) - non solo quelli europei - potremmo solo sperare che gli alieni provenienti da qualche pianeta extra-solare, invece che i soliti spietati colonizzatori ritratti dalla cinematografia catastrofica USA, siano invece dei bonari e affamati consumatori di i-Pad, FIAT panda, moussaka e magliette Bershka. Allora sì che sarà importante imparare a commerciare a velocità curvatura e superluminare con Proxima Centauri.
PS: Esiste, in effetti, un altro tipo di svalutazione, ben spiegata qui dalla professoressa Gopinath di Harvard: la svalutazione fiscale. Si aumentano le tasse indirette come l’IVA per rendere le importazioni più costose a parità di prezzo delle esportazioni, e al contempo si abbatte il cuneo fiscale sul lavoro, per compensare l’aumento dell’IVA e dare respiro a imprenditori e dipendenti. Il problema è che, per paesi come la Grecia, l’aumento dell’IVA sarebbe monstre, mentre per l’Italia… beh, sono ormai mesi che il nostro paese è prigioniero della promessa elettorale sull’IMU, fatta da un partito famoso perché in 20 anni non ne ha mantenuta una, e di un governo che non riesce a trovare la copertura di due cenciosi miliardi per RINVIARE l’aumento dell’IVA: immaginatevi una “svalutazione fiscale”, in tempo di pareggio di bilancio, gestita dagli stessi statisti…
(Gianluca Frattini è laureato in Scienze economiche della Cooperazione, attualmente disoccupato, naviga nella crisi come osservatore. Le opinioni espresse gli appartengono).
Complimenti per il curriculum.
RispondiEliminaSul post nulla da dire?
EliminaGianluca Frattini